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Roberto Maggio
Product writer and hype engineer. Formerly partner, Director of Content, Head of Verbal Design at Enhancers.
Retail/FMCG
20/05/2024

Digital product vs. COVID-19 (ITA)

Fondata sul telelavoro

Inutile nascondersi dietro una mascherina: siamo entrati nell’epoca — speriamo effimera — delle relazioni interpersonali ad almeno un metro di distanza. L’epidemia del nuovo Coronavirus invade la nostra quotidianità, ci costringe a modificare abitudini e comportamenti, ci sottrae la serenità, la vita sociale, il cinema, lo sport. E, con la nuova organizzazione dello spazio che impone, ci spinge violentemente nel futuro del lavoro: smart working e collaborazione in remoto sono l’attualità, per decreto.

Non per tutti l’opzione è facilmente percorribile, e in alcuni casi non lo è del tutto. Le conseguenze del contagio per i settori più tradizionali sono difficilmente quantificabili. Eppure già oggi, nel mondo, il 52% degli impiegati lavora in remoto almeno una volta alla settimana e il 68% una volta al mese (dati Owl Labs — Global State of Remote Work 2018). Con i comparti a maggiore tasso tecnologico che influenzano decisamente le statistiche.

Owl Labs, Global State of Remote Working 2018

Digital divide

Ovviamente le industrie del digitale sono le meglio attrezzate in termini di attitudine allo smart working. Non si tratta neppure di una scelta, ma di un paradigma inerente la sostanza stessa di ciò di cui ci occupiamo: creare manufatti intangibili — o “prodotti computazionali”, come li definisce John Maeda nel suo recente How to Speak Machine — utilizzando mezzi di produzione e logistica distributiva in larga parte immateriali.

Prendiamo l’esempio di una digital product factory come Enhancers: i nostri team ibridi e distribuiti composti da designer e sviluppatori collaborano abitualmente a distanza in un contesto Agile. Condividono informazioni e materiali su piattaforme come Miro e in repository nel cloud, si confrontano costantemente in meeting virtuali e documentano accuratamente ogni passaggio con tool come Confluence, in modo da consentire a tutti i partecipanti al gruppo di lavoro, compresi i nuovi membri, di accedere da dovunque all’intera storia del progetto.

Una board collaborativa su Miro

Le decisioni strategiche vengono prese velocemente in conference call, dall’assegnazione di una commessa all’approvazione dei vari deliverable, e i prodotti finiti sono rilasciati in tutte le geografie coinvolte direttamente attraverso canali digitali. Partecipiamo a un grande dispositivo deterritorializzato che ci consente di lavorare in modo efficace ed efficiente con gli Stati Uniti o l’Australia così come con Milano.

Non solo: anche le attività di indagine e verifica con gli utenti tipiche del design thinking, che appaiono come le meno separabili dall’interazione in presenza, possono essere svolte a distanza, per esempio effettuando interviste e user test in videoconferenza con metodologie ad hoc. Perfino i workshop possono essere condotti in remoto — l’abbiamo fatto con successo in numerosi casi — e a volte risultano addirittura più proficui, rimuovendo fattori critici come l’involontaria prevaricazione dei partecipanti più esuberanti sugli altri, che spesso si presenta durante le sessioni di persona.

Smart smart working

In sintesi, la nostra modalità di lavoro è smart da sempre e per natura, con collaboratori e clienti, in Italia e con l’estero. Abbiamo provato a sintetizzare questa esperienza in una serie di indicazioni pratiche: takeaway minimi per contribuire a migliorare un’esperienza di remote working che per molti, ne siamo consapevoli, rappresenta uno choc culturale:

  1. Il giusto setting. Non tutti hanno a disposizione a casa una postazione perfettamente ergonomica: se si trascorre troppo tempo sul divano con il laptop sulle ginocchia o al tavolo della cucina, meglio alzarsi, camminare un po’ e cambiare posizione almeno ogni ora.
  2. Un po’ di routine. Restare in pigiama tutto il giorno può sembrare affascinante all’inizio, ma di certo non aiuta a entrare in un mood produttivo. Meglio ricreare anche a casa una separazione simbolica tra lavoro e riposo, chiara anche agli altri familiari e conviventi.
  3. Timing is everything. In caso di remote working, più ancora che in ufficio, conta la divisione del tempo e il ritmo delle attività. Giusto dedicare un intervallo preciso al lavoro, come il classico 9–13/14–18, magari dedicando metà tempo al “deep work” e metà alla collaborazione (mail, call, chat…).
  4. Obiettivi chiari e misurabili. Conviene stabilire preventivamente con il resto del team quali sono i task quotidiani e quali i kpi per misurarne l’andamento, in modo da distribuire correttamente tra tutti i carichi di lavoro e garantire quella trasparenza che è alla base della fiducia reciproca, più che mai indispensabile in questo contesto.
  5. Assicuratevi che la connessione Internet funzioni…

Se vi trovate poi a organizzare o a partecipare a workshop, design sprint, sessioni creative di ogni tipo che si tengono in remoto, questi sono i principi fondamentali da adottare:

  1. Siate previdenti. Tanto più si pianifica e si anticipa il lavoro, tanto meglio funzionerà il workshop.
  2. Andate sul personale. Se non conoscete già tutti i partecipanti, organizzate delle brevi chat uno-a-uno prima della sessione.
  3. Studiate gli strumenti. Dedicate dell’effort a scoprire i tool che verranno usati e a testare le tecnologie necessarie (“mi senti? E ora? Aspetta che tolgo il video…”).
  4. Comunicate troppo. Se pensate che il team si stia ripetendo, allora vuol dire che sta iniziando a comunicare bene. A distanza è meglio ribadire i concetti per essere sicuri che tutti siano allineati.
  5. Democratizzate. Cercate di dare a tutti lo stesso spazio e le stesse opportunità, considerando anche le variabili contestuali (fusi orari diversi, difficoltà tecniche, bambini a casa ecc.).
  6. Pensate digitale. Anche quando un esercizio può essere svolto con carta e penna, scegliete piuttosto di usare strumenti digitali fin da subito e per tutto — aiuta sia la condivisione in tempo reale che il lavoro finale di raccolta e organizzazione dei materiali.

Effetti collaterali

Non si tratta solo di resilienza, ovvero dell’attitudine ad affrontare e superare un trauma. Negli ultimi giorni viene continuamente evocato, non sempre a proposito, il concetto di “cigno nero” — il black swan — come l’ha elaborato in un saggio omonimo Nassim Nicholas Taleb, per indicare come l’epidemia di COVID-19 rappresenti uno di quei fenomeni impossibili da prefigurare, che sovvertono le previsioni e piegano presente e futuro in nuove direzioni.

L’economista e filosofo libanese, però, ha anche introdotto in un altro celebre lavoro un principio che supera radicalmente quello di resilienza: l’antifragilità. Un costrutto non a caso molto popolare sia tra gli studiosi di behavioral economics che tra i professionisti del digitale.

Per antifragilità si intende la capacità di un sistema di reagire con il cambiamento al trauma, trasformandosi e scoprendo di conseguenza anche nuovi fini prima invisibili — in una parola, evolvendo.

Se preferite possiamo riformularlo in altri termini, piuttosto popolari di questi tempi: da una grande crisi sorgono anche grandi opportunità. Tra queste ultime, ci sono quella di imparare a gestire in modo diverso e più maturo le nostre responsabilità, di costruire modelli comunitari inediti e di familiarizzare su vasta scala con i metodi di lavoro fluidi, distribuiti ed efficaci che l’industria digitale applica ormai da tempo.

La presenza invisibile ma ingombrante del virus alimenta il sospetto reciproco, ci respinge in direzioni opposte come poli magnetici uguali, ci porta a percepire negli altri un potenziale pericolo. In questo quadro poco confortante, lo smart working non è solo una soluzione efficace per mantenere la produttività in sicurezza, ma forse, quasi paradossalmente, anche un modo per conservare relazioni autentiche, spontanee e umane. Proviamoci.

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